Come differenti approcci alla sostenibilità determinano aziende capaci di evolvere

— di Gaia Caputi, Business Coach di euXilia

 

LA SOSTENIBILITÀ NEL PROPRIO PERCHÉ

Quando ci chiedono quale sia il nostro “perché”, noi di euXilia rispondiamo: “Aiutare le persone ad evolversi per avere un impatto migliore sulla propria organizzazione, e far sì che l’organizzazione evolva per diventare terreno fertile per le performance delle persone.”

La parola “evoluzione” non è lì per caso. Cosa significa?

La scienza ci insegna che, in natura, a sopravvivere non sono i più forti ma i più adatti: lo stesso vale per le organizzazioni.

Essere forti significa portare grandi numeri, avere successo. Essere adatti, invece, significa essere in grado di evolvere nel tempo incrementando e soprattutto mantenendo il proprio successo, il proprio benessere, nel tempo. E il tempo, si sa, cambia velocemente.

La sfida del nostro tempo è la sostenibilità: le risorse di cui necessitiamo non sono mai state limitate come adesso. Sta a noi riuscire a crescere, ad essere organizzazioni “forti” in un mondo dove tutto si muove e si esaurisce tanto velocemente da non lasciare molte prospettive al domani, tanto più se diamo continuità alle azioni che già conosciamo e che abbiamo messo in atto per anni ed anni.

Quelle azioni sono il passato, e non hanno futuro.

Evolversi, oggi, significa essere sostenibili, socialmente, economicamente e ambientalmente. Non è meramente una questione di scelta: chi non si impegna per essere sostenibile oggi, semplicemente non sarà più adatto all’ambiente di domani.

Ma a chi importa oggi di domani? Una caratteristica dell’essere umano è che finché non vede le conseguenze dirette delle proprie azioni non sviluppa consapevolezza, non matura una coscienza di sé e dell’impatto che ha su ciò che lo circonda.

Quindi la domanda che possiamo porci è: quanto siamo consapevoli di quello che stiamo facendo ora e degli impatti che ne derivano? Quanti di questi impatti non sono immediati, presenti nel nostro campo visivo, ma richiederebbero di cambiare prospettiva, di guardare dagli occhi di qualcun altro?

Se potessimo chiedere in prestito gli occhi di un contadino che lavora le materie prime che ci servono ogni giorno per svolgere la nostra professione, forse ci renderemmo conto di non essere sostenibili quanto crediamo. L’idea mainstream di sostenibilità riguarda delle campagne, degli slogan, delle attività specifiche messe in atto per poter aggiungere l’etichetta “sostenibile” al nostro logo.

In ambito aziendale c’è ancora confusione sul significato del termine sostenibilità: qualcuno dice che, fatto il bilancio di sostenibilità, si sia inevitabilmente sostenibili; altri si dichiarano tali perché scelgono prodotti biologici, o ancora ci si vanta degli obiettivi messi in agenda per il futuro, i quali promettono che partirà qualche progetto in linea con normative ed ideali di sostenibilità.

Al di là di tutte le rappresentazioni e definizioni disponibili, essere sostenibili parte spontaneo se alla base di ogni azione c’è la domanda: “posso fare quello che sto facendo adesso per sempre?”.

Se mi trovo in un’azienda di successo, probabilmente a livello economico la risposta è sì.

Ma a livello ambientale? Riesco veramente a non esaurire nessuna risorsa? Ad alimentare un sistema circolare? Ad assorbire tutta la CO2 emessa?

E dal punto di vista sociale? Le persone possono lavorare in questo modo per sempre, sentendosi motivate e con elevate performance?

Non si tratta di una pratica, di un obbligo, di una legge, o di una strategia di marketing. Rispondere a queste domande diventa un ragionamento identitario, qualcosa che stabilisce una chiarezza interiore molto profonda.

Quello di cui ci occupiamo noi, come euXilia, è chiederci: “Possiamo fare quello che stiamo facendo e ottenere le performance di cui abbiamo bisogno per competere sul mercato, senza esaurire la vitalità delle persone?”

 

COS’È UNA MENTALITÀ SOSTENIBILE

Prendiamo come esempio l’azienda media che opera nel triveneto.

Quando entriamo in un’organizzazione cerchiamo di capire qual è il modello mentale che la caratterizza, qual è la direzione che seguono, che spinge avanti gli imprenditori, i manager, i principali attori della dell’organizzazione.

La mentalità che incontriamo più spesso è quella riassumibile come “il modello cowboy”, un modello americano degli anni 60 secondo il quale le risorse sono come illimitate: il primo che se le procura è quello che vince, e le sfrutta al massimo.

La parola “risorse” in questo caso, non è banale: spesso la abbiamo scritta sul biglietto da visita, ma, fermandosi a rifletterci, il termine ha in sé il concetto di sfruttamento, non un concetto di sostenibilità.

Un secondo elemento che riscontriamo spesso nella cultura aziendale è la competizione: qualunque azienda sul mercato è in un ambiente competitivo e al suo interno si fanno strada le persone con più smania di prevalere e di risplendere. Ma la competizione non è altro che violenza regolamentata, cioè limitata dalle regole. Ce lo si ripete come un mantra: “devo primeggiare, devo riuscire avere un sistema prodotto migliore”.

Questo modo di pensare è davvero sostenibile?

Analizzandolo profondamente, il mantra competitivo deriva da elementi di paura egoica, cioè generata dalla fragilità dell’io di ciascuno e dell’organizzazione, di riflesso. Il dover vincere a tutti i costi, il dover essere sicuro “proprio io” a discapito degli altri, è un modello mentale che ha permesso di erigere tantissime organizzazioni di successo e la maggior parte di quelle esistenti oggi.

C’è solo un “ma”: che no, non è sostenibile, né per le risorse umane né per quelle materiali. E uscirne è difficile.

È possibile solo provando attivamente ad adottare un’altra mentalità, che porta al successo in maniera meno certa: la “mentalità dell’astronauta”.

L’astronauta è una persona che ha una risorse limitate in partenza. Non può procurarsi tutto quel che vuole. Deve essere molto attento a sfruttare quello che ha durante tutto il viaggio, non solo alla fine. Sembra una vita impossibile, ma avere risorse limitate implica anche una cosa meravigliosa: un focus sull’apprendimento. Il mantra cambia, si sposta da “Devo primeggiare” a “Devo imparare a fare le cose in maniera diversa alla luce delle risorse di cui dispongo”.

Come anticipato, però, questo modello non dà risultati certi. Probabilmente nessuno sa esattamente come gestire così il proprio business in maniera da farlo funzionare al cento percento: bisogna imparare a farlo.

L’unico modo per riuscirci è gestire i cicli di apprendimento, cioè osservare come si sta operando ora, formulare delle idee e fare degli esperimenti che le testino; questi esperimenti misurano i risultati dai quali trarre delle conclusioni che permettono di agire di conseguenza. Questo è l’approccio scientifico. Sono poche le aziende che applicano questa mentalità a livello di management, ma è qualcosa che si può insegnare ed acquisire con la giusta guida.

Un altro elemento fondamentale è la collaborazione: non è più sostenibile e quindi non è più possibile ragionare solo in ottica di competitività distruttiva. Si rende fondamentale la collaborazione tra imprese, anche se hanno parte di mercato in competizione. Qui si sollevano molti dubbi: collaborare non è nel DNA di chi decide in queste realtà, perché se l’obiettivo fino a ieri è stato distruggere la concorrenza, collaborarci appare contronatura. È qui che invece si snoda un altro assunto fondamentale delle aziende evolute, delle aziende di domani: l’amore per la scoperta.

Amare la scoperta vuol dire essere interessato e curioso di sapere chi sei, saperti ascoltare, sapere di voler continuamente imparare qualcosa di nuovo, pensare a quello che non esiste ancora: perché quello che esiste già, che sta funzionando, sta producendo utili per l’azienda, non è sostenibile. Quindi occorre spostare il focus dal gestire allo scoprire. A quel punto si giunge a uno snodo di transizione: non serve riuscire ad avere tutti astronauti subito, ma quantomeno far convivere, coesistere, elementi competitivi con elementi collaborativi all’interno delle stesse aziende, così da creare il terreno fertile per coltivare astronauti di domani.

 

GLI EFFETTI DI UNA MENTALITÀ SOSTENIBILE

Perché dobbiamo farlo? I dati statistici suggeriscono che a lasciare volontariamente il lavoro durante la pandemia sono state il 4% delle persone. Potrebbe apparire un tasso di turnover normale.

Una ricerca portata avanti da McKinsey mostra che il 40% delle persone, oggi, vorrebbe abbandonare la propria azienda. Pensare che questo stia accadendo nella propria, metterebbe i brividi a qualunque imprenditore o HR, semplicemente perché non è sostenibile. Così come non lo è, per quelle persone, restare.

Se la cultura aziendale, il modo che si ha di gestire le persone e le risorse, le interazioni di management non sono sostenibili, il tasso di turnover diventa elevatissimo. E per l’azienda stessa non è sostenibile avere un 40% del personale che non è ingaggiato e motivato a rimanere.

Cosa sarebbe sostenibile, invece? Avere persone che sono talmente assorte dall’attività che svolgono, che si ricaricano con l’attività stessa, che traggono energia da quello che fanno e non stress e fatica.

Ovviamente la performance conta. Ma come la si raggiunge?

Ci sono due approcci, che per semplicità chiameremo “modello dell’altalena”.

Il primo prevede che il management dica alle persone cosa fare. Le persone restano nella loro area di comfort, in cui sanno cosa devono fare perché è stato loro detto. La vera spinta, l’energia che mette in moto tutto, viene dal manager, come fosse un genitore che spinge la schiena del bambino per farlo dondolare sull’altalena. Di generazione in generazione, si formano manager che spingano le persone all’azione, perché eseguano ciò che loro avevano in mente ma che non avevano il tempo o le competenze pragmatiche per fare.

Questo stile di management non è sostenibile: l’azienda spinge, ma non cresce. Le persone eseguono, ma non crescono. Le risorse mentali dei manager si esauriscono a lungo andare, le persone sono frustrate e vanno via.

Sostenibilità, nelle aziende, significa avere manager che insegnino al “bambino” come dondolarsi in modo tale da far partire l’altalena, portandola, poco a poco, a salire sempre di più. Abbandonando la metafora, il management può essere fautore di un cambiamento sostenibile insegnando alle persone come pensare da sole, come navigare l’incertezza sul da farsi, come tirar fuori da sé stesse le risorse per prendere decisioni autonome e responsabilizzarsi. Questo genera sostenibilità: basso turnover, elevata motivazione, elevato potenziale che si rigenera e non si esaurisce nello sprint di una competizione.

Una volta fornito questo set di strumenti trasversali, a livello sociale, si può cominciare davvero ad affrontare la tematica della sostenibilità anche in ambito economico ed ambientale, con professionisti allenati a far fronte alle sfide di un avvenire incerto e per cui non ci sono soluzioni date, scontate e che “si sono sempre fatte così”.

Per avere un futuro sostenibile serve innovazione, e l’innovazione richiede un cambiamento culturale radicale che ne rappresenti il terreno fertile. È una fatica, un lavoro lungo: ma il punto di arrivo è una cultura dove le persone sono ingaggiate e l’ambiente aziendale è davvero, senza compromessi e senza trovate di marketing, sostenibile.